LA DORICLEA
Fino a non molto tempo fa la leggenda di una vita scellerata aleggiava sulla figura di Alessandro Stradella, oscurandone in parte la grandezza. Il mistero che sembrava gravare sulle sue origini, il brutale assassinio avvenuto ancora in giovane età, le fughe dalle diverse città che avevano anche segnato le tappe della sua carriera di artista, creavano un sostanziale misconoscimento dei processi formativi ed evolutivi che avevano dato sostanza e valore alla sua musica. Intanto si è fatta luce sulla sua nascita a Nepi nella Tuscia viterbese il 3 aprile 1639, da una famiglia nobile di poche sostanze. Alessandro nacque dal matrimonio di Marcantonio, Cavaliere di Santo Stefano con Vittoria Bartoli nobildonna orvietana. Durante la guerra di Castro Marcantonio fu nominato vice-marchese di Vignola, dove la famiglia visse dal 1642 al 1644, suffragando l’ipotesi di studi musicali a Bologna. Dopo la morte del padre nel 1653, a quattordici anni, insieme con la madre e un fratello maggiore si trasferì a Roma a Palazzo Lante, dove la madre divenne “Donna della Duchessa” e dal 1667 Stradella fu musicista richiesto dalle più grandi famiglie aristocratiche per la scrittura di cantate, dalle istituzioni religiose per composizioni sacre ed oratori, e da istituzioni laiche come il teatro Tordinona per prologhi ed intermezzi. Nonostante la sua prolificità e creatività, la sua vicinanza alla regina Cristina di Svezia, ai Pamphili e Colonna, la sua nomina al titolo onorario di “cameriere extra”, fu costretto a fuggire da Roma, per contrasti con la famiglia papale dei Cybo. Fuggì anche da Venezia e da Torino, picchiato quasi a morte da due sicari del Contarini, si rifugiò poi a Genova dove trovò la protezione di Anna Pamphili e del marito Giovanni Andrea Doria, ricevendo l’incarico di impresario e compositore del Teatro Falcone. Un gruppo di nobili, per trattenerlo in città lo gratificò di un contratto con il quale provvedevano a vitto, alloggio, servitù, oltre a uno stipendio di 100 dobloni spagnoli all’anno. Questo periodo finanziariamente sicuro si concluse però tragicamente la sera del 25 febbraio 1682 quando fu assassinato, pugnalato alle spalle da un ignoto sicario, per ragioni ancora oggi totalmente oscure. Aveva solo 42 anni.
La scrittura musicale di Stradella è molto personale e si pone all’avanguardia della produzione compositiva di quegli anni. E’ anche ricchissima: si conoscono 312 composizioni conservate in 56 biblioteche di tutta Europa e negli Stati Uniti, e ricoprono tutti i generi musicali dell’epoca, dalle cantate a voce sole o a più voci, accompagnate dal solo basso continuo o da un insieme strumentale più numeroso, oratori e mottetti, composizioni per il teatro, sonate per uno o più solisti, composizioni per il concerto grosso.
La Doriclea di Alessandro Stradella è un’opera estrememante originale nell’impianto drammaturgico e nella struttura narrativa e musicale, con personaggi affascinanti e giochi di ruolo intriganti. Si evince in particolar modo una straordinaria mésailliance con la gli scenari della commedia all’improvviso e con il teatro contemporaneo, inglese e spagnolo.
Una lettera di Stradella a Flavio Orsini ci rende noto che il compositore nepesino scrisse l’opera nel 1681, un anno prima della sua precoce e tragica morte, e a Genova, ma non per il teatro Falcone, ma per una committenza privata, di grandissimo prestigio. Nella lettera, del 24 maggio di quell’anno, si parla di un operetta da fare per l’estate di “spada e cappa…per la villa e per il mare” , promossa da un gruppo di aristocratici delle famiglie più importanti di Genova, gli Spinola, i Doria, i Serra, che la vogliono fare “in tutta perfettione” con un cast di tutto rilievo con “le parti migliori che si possino avere in Italia, e fuori ancora”, con cantanti del calibro del basso romano Petriccioli e il castrato Cortoncino.
Per queste ragioni dobbiamo pensare a una o più rappresentazioni in un teatro privato situato con probabilità in una villa suburbana, e quindi con modalità e forme sceniche tipiche della realtà di un mondo, quello aristocratico, diverso da quello del teatro pubblico borghese. Gli interpreti, tre donne e tre uomini, due soprani, due contralti di cui uno maschile, un tenore e un basso, nella straordinaria scrittura stradelliana si danno ad un canto ricco di contrasti, con luci ed ombre di dinamiche cromatiche che vedono il prevalere di arie e recitativi sia semplici che ariosi. Stradella utilizza due violini e il basso continuo, qui realizzato con viole da gamba ,tiorbe e tastiere. Lo stile musicale vede intrecciarsi quello della scuola bolognese (Bononcini, Uccellini, Vitali) e quello romano e come sempre in Stradella, asseconda i caratteri dei personaggi. Sei i protagonisti , quattro amorosi e due buffi se li esempliamo sul modello dei comici dell’arte: Doriclea e Fidalbo, innamorati , Lucinda e Celindo, anch’essi amanti, Delfina e Giraldo. Si potrebbe quasi affermare che il libretto presenti delle fortissime componenti “istrionesche” edulcorate però nei modi e private del linguaggio scurrile e volgare dei lazzi delle maschere, mentre rimangono il gioco, il travestimento e spesso i doppi sensi, che conservano una traccia, dissimulata e scolorita della presenza dell’aura della vis comica, in quella “dissimulazione onesta” con la quale “l’angelo nero”, contraffà la sua immagine demonica per renderla accettabile al nuovo pubblico aristocratico e borghese, della corte e del teatro impresariale.
Queste considerazioni mi hanno portato ad indagare su quali potessero essere le forme e i modi della messa in scena genovese, in particolar modo riguardo ai costumi, sui quali mancano riscontri nelle fonti, necessitando quindi di verifiche con la moda contemporanea seicentesca. Ho deciso quindi di sottoporre le tre coppie che sono alla base dell’opera ad una analisi che cercasse di metterne in luce le caratteristiche drammatiche ma anche caratteriali, affidando loro tre visioni diverse della moda barocca in quel frangente degli anni ’70 e dei primissimi anni ’80, quando la moda italiana si apre alle novità provenienti dalla Francia, lasciandosi alle spalle il lungo periodo di appartenenza alla sfera del gusto spagnolo, che ella stessa aveva contribuito a creare nel XVI secolo, avendo come assoluto riferimento la ritrattistica italiana e francese degli anni ’60 e ’70 del Seicento, con pittori quali Francesco Cittadini, Carlo Ceresa e soprattutto Voet con i sui ritratti di Belle realizzati per l’entourage romano dei Chigi. Doriclea, nei suoi due aspetti, femminile, e maschile come Lindoro, e Fidalbo, indossano abiti a metà strada fra l’aulico e lo stile d’avanguardia che viene dalla Francia. La scelta di un’immagine con una forte componente pastorale credo possa aderire al personaggio elegiaco della costante fanciulla che viene mantenuto anche negli abiti en travesti di Lindoro. Decisamente all’avanguardia gli abiti indossati invece da Lucinda e Celindo, rappresentanti di una nobiltà frivola e “modaiola”. Infine Giraldo e Delfina, lui servo, lei forse borghese arricchita, indossano abiti antiquati, sontuoso comunque quello della donna, anch’ella personaggio en travesti, legato alla moda degli anni ’50 e ’60 in Italia, dove Spagna e Francia si incontrano nelle forme di giubboni con baschina più morbida e ampissime faldette ancora sostenute da guardinfanti. Il personaggio di Delfina, ripreso dalla ritrattistica di Carlo Ceresa, sembra infatti il più attento al suo aspetto nel seguire determinate mode, che lei presuppone essere d’attualità, nel tentativo di potersi allineare alle parvenze di un ceto aristocratico, dal quale però la sua nascita o la sua età, o entrambe, la allontanano. Questa sua subalternità rispetto al ceto dominante la rende ridicola, le sue scelte appaiono eccessive, come anche il linguaggio, sicuramente con quello di Giraldo, il più ricco di doppi sensi e di un velato erotismo. Allo stesso modo le forme non più all’ultimissima moda di Giraldo lo identificano nella sua inferiorità sociale e dimensione servile, ma non popolana in senso stretto, laddove la plebe senza diritti e censo non conosce alcuna forma vestimentaria alla moda se non in forma di straccio o lacerto.
L’esigenza di porre un attento studio e ricerca filologica sulla moda seicentesca e settecentesca alla base della progettazione di costumi per la messa in scena dell’opera barocca, come da decenni si fa con la prassi esecutiva e la strumentazione originale, credo che ormai sia diventata indispensabile e imprescindibile se veramente vogliamo restituire una possibile verità storica a quello che vediamo ed ascoltiamo. La realizzazione di costumi filologicamente informati, è diventata parte integrante di un progetto didattico dell’Accademia di Belle Arti di Roma, nel quale sono state coinvolte le migliori studentesse del Corso di Costume del Biennio di Specializzazione in Culture e tecnologie della moda, Federica Carone, Ilaria Scullino e Isadora Spassitch, all’interno delle cattedre di Storia della Moda 1 tenuta dalla scrivente Prof.ssa Isabella Chiappara e di Scenografia e Costume del Prof. Francesco Zito, ponendosi su una strada di sperimentazione che potrà contribuire ad una resa scenica più coerente con il dato storico e sicuramente più “spettacolare”.
Isabella Chiappara Soria
LA DORICLEA
Opera in 3 atti
Musica di Alessandro Stradella
Doriclea S
Fidalbo A
Lucinda S
Celindo T
Delfina A
Giraldo B
ATTO I
SCENA I. Fidalbo, pensando alla sua bella Doriclea, confida la sua felicità al tepore della sera (“Stringe il piè forte catena”). Meno allegro è il servo Giraldo: al servizio di una dama passionale, Lucinda, deve scortarla nei suoi ritrovi amorosi, invece di tirar sera in osteria (“Questi son confortini”).
SCENA II. Scende Lucinda, agitatissima: il suo amante, Celindo, è in ritardo e la sua mente si dibatte in gelosie e sospetti (“Stabilito ha più volte il pensiero”).
SCENA III. Quando infine Celindo la raggiunge, accampando il suo amore incrollabile (“Un incendio io chiudo in seno”), Lucinda è acida e ostile; il gioco di schermaglie e rimbrotti continua fino a placarsi in un duo di riconciliazione (“Dal seno sen fugga”).
SCENA IV. Usciti gli innamorati, Delfina, una dinamica zitella, sta uscendo per avviarsi in città: l’età matura non l’ha dissuasa dal cercare ancora amore e fasto (“Vedo alcune personcine”).
SCENA V. Appare Doriclea, in preda a tormentosa incertezza. Il suo amore per Fidalbo è contrastato dal padre, che vorrebbe darla in sposa a un uomo più facoltoso. Non le rimane che fuggire di casa, ma non sa decidersi a un passo tanto estremo (“Astri o voi che in ciel rotate”).
SCENA VI. Ripassano Giraldo e Celindo. Il primo, che sta uscendo, sberleffa i grandi sentimenti (“Io per me non la so intendere”), ma il secondo lo blocca per porgli domande sulla padrona: egli teme infatti che l’aggressività di lei nei suoi confronti nasconda un altro amore. Giraldo lo rassicura: Lucinda non ama che lui, …per adesso.
SCENA VII. Fidalbo e Doriclea si ritrovano. Il giovane (“Acutissimo è lo stral”) ribadisce l’intensità del suo affetto all’amata, a cui basta vederlo per sentirsi rincuorata (“Si raddoppino le piaghe”).
SCENA VIII. Si affrontano poco dopo anche Lucinda e Celindo. Questa volta è lui tormentato dai sospetti; per placarlo Lucinda gli assicura una prova d’amore. Rimasto solo Celindo afferma una singolare visione di Amore, nutrito di tormenti e dolce schiavitù (“Che pena non dà”).
SCENA IX. Infine Delfina e Giraldo. La zitella si agghinda secondo le moderne fogge (“Vedo certe stravaganze”), scena esilarante per Giraldo, che la osserva rientrando. L’aitante cameriere attira l’attenzione di Delfina, che si lancia senza indugio al suo assedio (“Uom che vive sol vive infelice”). Il giovanotto, divertito, sta al gioco, ma, quando le avances si fanno pesanti, taglia l’angolo, lasciando la donna ardente di passione (“Fortuna importuna”).
SCENA X. Doriclea si è finalmente decisa: abbandonerà la casa paterna quella notte stessa, approfittando dell’assenza del genitore, e fuggirà con Fidalbo (“Hai vinto, Amore”). Questi è incredulo di gioia; i due si ritroveranno lì una volta calate le tenebre (“Men dell’usato aggirisi”)
SCENA XI. Il problema è che anche Lucinda, con un biglietto, ha dato appuntamento a Celindo per un convengo amoroso. A notte inoltrata, Celindo, ebbro di passione, si reca a incontrare la sua innamorata.
SCENA XII. Poco dopo lo raggiunge in strada Giraldo: il suo compito è attendere Celindo e comunicare a Lucinda il suo arrivo. L’assonnato domestico si tiene sveglio cantando un’arietta impudente (“Ogn’amante fa l’amore”) che Celindo non gradisce affatto. Minacciato dal giovane, Giraldo rientra.
SCENA XIII. Una sagoma femminile scivola nel buio. Celindo le si fa incontro con passione, convinto che si tratti della sua donna. In realtà è Doriclea, in attesa di Fidalbo: ingannata a sua volta dall’oscurità, la giovane scambia Celindo per il proprio complice e gli sussurra di condurla via. L’ignaro giovane obbedisce.
SCENA XIV. Scortata dal domestico, Lucinda scende a sua volta in strada; i due sono sorpresi di non trovarvi Celindo. Un rumore di passi: è Fidalbo, che arriva come d’accordo con Doriclea. Anche fra Lucinda e Fidalbo sta per consumarsi lo stesso equivoco, ma quando la donna, invece di prendere la via della fuga, vorrebbe condurre il giovane in casa sua, il malinteso si chiarisce. All’imbarazzo generale si unisce l’incertezza sulla sorte dei rispettivi amanti: dove sono finiti Celindo e Doriclea? (“E’ un labirinto il tuo gran regno, Amore”).
ATTO II
SCENA I. Le prime luci dell’alba. Anche i due inconsapevoli fuggiaschi, Doriclea e Celindo, si sono accorti del qui pro quo e sono tornati sui loro passi. Celindo offre amicizia e protezione all’atterrita ragazza, la quale, dal canto suo, decide di non tornarsene a casa, ma di sfruttare il travestimento in abiti maschili, approntato per la fuga, per ritrovare Fidalbo e capire come mai non si è presentato all’appuntamento (“O Fidalbo e dove sei”).
SCENA II. Anche Delfina è in cerca del suo Giraldo; nell’attesa ella biasima l’eccessiva considerazione di cui le giovincelle sono circondate (“Quanto gracchiar si sente”). Quando il domestico attraversa la scena, l’assedio ricomincia; agilmente Giraldo svicola ancora una volta, lasciando l’attempata spasimante a rimuginare (“Aman sol queste fraschette”).
SCENA III. Quanto a Fidalbo, egli ha trascorso la notte di vedetta davanti alla casa di Doriclea, sperando di poterla incontrare. Ma le ore sono trascorse e della giovane nemmeno la traccia. La vana attesa ha fatto sorgere nell’uomo i più foschi pensieri (“Chi sa dove dimori la beltà”).
SCENA IV. Anche Lucinda è convinta che il suo Celindo non si sia presentato la notte scorsa perché distratto da un’avventura occasionale (“Voi non piangete o stelle”). Sicché, quando se lo ritrova davanti, lo investe di improperi e lo pianta in asso senza lasciarlo spiegare. A Celindo non resta che maledire le sofferenze d’amore (“Questo è dunque quell’amor”).
SCENA V. Doriclea, travestita da uomo, si prepara a sua volta ad affrontare Fidalbo. Teme ciò che scoprirà e si sente come Fetonte, precipitato nell’abisso dalla sua audacia (“Menzognero fu che disse”).
SCENA VI. Fidalbo sopraggiunge, affranto. Doriclea, spacciandosi per un certo Lindoro, lo invita a confidargli le sue pene. Fidalbo racconta allora allo sconosciuto che la sua amata, in procinto di fuggire con lui, ha preferito trascorrere la notte con un altro. Con impeto il finto Lindoro tenta di difendere l’onore della ragazza, senza però scalfire l’amarezza di Fidalbo (“O quanto si inganna”).
SCENA VII. C’è aria di tempesta in casa di Lucinda; Giraldo sguscia fuori per evitare di trovarsi in mezzo (“Giraldo, sta saldo!”). Delfina lo agguanta e ricomincia il gioco di complimenti pesanti da una parte e beffardi dinieghi dall’altra. All’esplicita di richiesta di prenderla in moglie, Giraldo si dilegua come al solito (“E perché non son io bella”).
SCENA VIII. La furia di Lucinda verso Celindo è incontenibile. Doriclea, sempre mascherata da Lindoro, la si fa incontro e la invita a confidarsi. Colpo di scena: folgorata dal leggiadro aspetto del nuovo interlocutore, Lucinda si fa più mite e, prima di rientrare, gli indirizza una chiara allusione.
SCENA IX. Anche Fidalbo, che sopraggiunge, ha colto l’avance di Lucinda a Lindoro. Quest’ultimo però minimizza e anzi si affanna a rassicurare Fidalbo sulla propria … fedeltà verso di lui. Fidalbo non coglie la bizzarria di siffatte professioni di affetto, da parte di uno sconosciuto e per giunta uomo: è troppo intento a rimuginare sulle proprie sofferenze (“Il seguire il dio bendato”).
SCENA X. Delfina blocca ancora Giraldo: ella reclama che si risponda alla sua proposta di matrimonio. Il giovanotto però continua a schermirsi: deve pensarci, rifletterci. Stia attento! Lo ammonisce Delfina. Il troppo pensare fa diventare vecchi anzitempo (“Pensieri fuggite”)!
SCENA XI. Torna in scena Lucinda, ancora una volta agitatissima. Ora però la sua smania dipende dal sentimento che sente nascere per il Lindoro appena conosciuto (“Adorato Lindoro e dove sei”). Vorrebbe coinvolgere nelle proprie emozioni il frastornato servo, che si guarda bene dal metter becco (“Per gli amanti Amor non ha legge”).
SCENA XII. La mattinata rifulge, ma Fidalbo ha perso per sempre il proprio Sole: Doriclea (“Se negli eterei campi”). Il suo lamento attira la compassione di Delfina (“Tu sempre intento a piangere”), che gli consiglia di dedicarsi ad altre donne. Fidalbo conviene col suggerimento: amerà un’altra per vendetta (“In che dà tanto penare”). Si lancia quindi alla conquista di Lucinda, la quale però – ormai presa da Lindoro – ne argina gli ardori con fermezza (“Nobil alma che la palma”).
SCENA XIII. Anche Celindo subirà la repulsa di Lucinda; egli vorrebbe provarle la propria innocenza e riconquistarne il cuore, ma ancora una volta è lasciato solo a disperarsi (“Crudelissimi pensieri”).
ATTO III
SCENA I. Come le stelle erranti sembrano fisse in cielo, ma in realtà vagano senza posa, così sono gli umori delle donne. Questo conclude Giraldo, esterrefatto dal contegno della sua padrona: solo ieri era tutta fuoco per Celindo e oggi è già stregata da un altro (“Guardi il Ciel”).
SCENA II. Effettivamente Lucinda non ha più pensieri che per Lindoro (“S’amor m’annoda il piè”). Quando questi sopraggiunge gli si dichiara senza ritegno, ma il finto gentiluomo replica in modo sibillino: ammette di “amare” (senza specificare chi), aggiungendo che il suo amore è contrastato da Celindo. Con quest’abile manovra, Doriclea può dire la verità senza tradirsi: infatti essa ama Fidalbo che però la rifugge perché convinto che lei si sia concessa a Celindo. Tuttavia ciò che Lucinda capisce è che “Lindoro”, pur amando lei, non si senta riamato, a causa del suo vecchio amore con Celindo.
SCENA III. Per parte sua, Celindo non può vivere senza la sua “Bellona”, che lo maltratta in tutti i modi. Inutilmente Giraldo lo ammonisce a lasciare Lucinda e godersi amori più tranquilli: è proprio il continuo stato di guerra ad alimentare la passione del giovane (“Nel mar del mio pianto”).
SCENA IV. Fidalbo sembra aver scordato Doriclea e ora punta con decisione al cuore di Lucinda: è la conferma di tutti i timori di Doriclea. Ella decide quindi di scrivergli una lettera, rovesciandogli contro tutto il suo sdegno e appassionato sconforto.
SCENA V. È Lucinda che scopre la lettera di Doriclea. Prontamente la consegna a Fidalbo, sperando così che egli cessi di importunarla: quello scritto infatti dimostra l’immutato sentimento di Doriclea nei suoi confronti. Fidalbo però replica che Doriclea non esiste più; ora il suo cuore è soltanto di Lucinda.
SCENA VI. Delfina ha rinunciato alle speranze su Giraldo, che evidentemente non è interessato: la zitella si dispone così a nuove e più fruttuose ricerche (“Pronta son per far l’amore”). Sorprendentemente la novità suscita nel servo una viva delusione (“Quel cor che non si frange”).
SCENA VII. Frattanto la lettera di Doriclea ha sortito il suo effetto: più Fidalbo la rilegge, più gli antichi sentimenti riaffiorano (“Sospira cor mio”).
SCENA VIII. In eguali ambasce si dibatte Doriclea. Ancora travestita da Lindoro, ella si sfoga con Celindo, l’unico che conosce la sua vera identità. I due ingaggiano una gara su chi stia soffrendo di più: peggio lo sdegno dell’oggetto amato o la sua infedeltà? (“Senza speme un core amante”)
SCENA IX. Ecco nuovamente Lucinda, disposta a tutto per il suo nuovo amore (“Spera mio core”). Se Lindoro non vuole amarla, che almeno la uccida! Ma Lindoro/Doriclea persevera nelle risposte ambigue: anche il suo cuore è disperato e la colpa è tutta di Lucinda (“Mio core a piangere”). Nemmeno quando la giovane minaccerà di suicidarsi, l’ingrato cederà (“Da un bel ciglio”).
SCENA X. Giraldo elucubra sull’amore, ma questa volta con un tocco di amarezza (“Come è dolce il far l’amore”). Frattanto Delfina sta rientrando a casa: le sue malinconie sul tempo che passa (“Donne mie non aspettate”) inteneriscono il servo, che ora si dichiara disposto a considerare l’ipotesi matrimoniale, con relativa dote. La donna, felice, ne conclude che i giovani d’oggi sono un po’ troppo lenti a prendere le decisioni (“Come è facile oggidì”).
SCENA XI. Proseguono frattanto gli scontri fra Celindo e Lucinda (“T’amerei, non posso”). Celindo smania per convincere l’amata della propria innocenza e le ritorce contro le accuse di infedeltà e leggerezza. Lucinda però lo pianto in asso ancora una volta (“O pupille crudeli, o stelle ingrate”).
SCENA XII. Fidalbo ha preso una decisione estrema: dato che Lucinda non ha occhi che per Lindoro, egli ucciderà il rivale. Questi gli si para davanti, con gli occhi colmi della disperazione di Doriclea (“Luci, voi che mirate”). Fidalbo non presta orecchio alle appassionate parole dell’uomo che sta per uccidere e, proprio nell’attimo in cui sguaina la spada, Doriclea getta finalmente la maschera.
SCENA ULTIMA. Fidalbo è impietrito e come lui tutti gli altri personaggi, accorsi per impedire il tafferuglio. L’unico a non trasecolare è Celindo, che può finalmente spiegare l’arcano: la notte prima Doriclea lo aveva scambiato per Fidalbo e solo per questo – in perfetta buona fede – si era allontanata con lui. Successivamente ella aveva deciso di sfruttare il travestimento per sondare il cuore di Fidalbo, scoprendo in tal modo che, nel volgere di poche ore, egli avrebbe cercato conforto in un’altra donna. Fidalbo si difende: mai avrebbe guardato Lucinda, se non si fosse sentito umiliato e tradito a sua volta. Ora che il malinteso è chiarito, gli amanti possono riabbracciarsi (“Trionfi Cupido”). Il lieto scioglimento coinvolge anche Giraldo, che depone le ultime resistenze (“È folle chi crede”) e accetta la mano di Delfina (“Tra i contenti Giraldo è numerato”).
E poiché anche Lucinda e Celindo possono riassestarsi nel loro solidissimo squilibrio (“Quanto godo”), l’opera può chiudersi con un inno all’amore (“Prenda per duce amore”).
Matteo Marazzi
Ente Musicale Società Aquilana dei Concerti "BONAVENTURA BARATTELLI"
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