AUTO INTERVISTA
– Perchè tanta tristezza?
– Non è la tristezza che ho cercato in questo progetto, ma la malinconia. Si può sicuramente piangere per disperazione, però a volte le lacrime sgorgano per commozione. Anche la bellezza può evocare commozione. In questo caso è stata la musica a guidarmi nel percorso. Ho seguito il mio cuore e il mio istinto, come sempre. Del resto anche Robert Burton ne The Anatomy of Melancholy ne descrive gli effetti benefici sul piano creativo…
– Come nasce il progetto?
– Ultimamente ho elaborato una convinzione riguardo ai progetti che faccio: quella di regalare a chi li ascolta un momento speciale. Per questo m’interessa un’area musicale extra-ordinaria e (spesso) non attingo al repertorio flautistico, fondamentalmente perchè non intendo fare un’operazione esclusivamente musicale, ma costruire una piccola opera d’arte. Può sembrare presuntuoso ma in un certo senso mi accosto a questo ideale con grande umiltà e semplicità, seguendo il percorso di un modesto rituale domestico.
– Perchè Dowland?
– Dowland è la sintesi perfetta di questa ricerca. Una musica sperimentale nelle armonie con una struttura formale decisamente avanzata sui tempi. Le Lachrimae sono state concepite come una variazione della variazione. Ognuna delle Lachrimae è un adattamento diverso della stessa canzone dello stesso Dowland, Flow my Tears. Questa musica è fuori dal tempo: essendo totalmente astratta, rimane congelata nella sua perfezione. Più che delle variazioni le definirei delle divagazioni. Per questo non ho avuto paura di affrontare questa musica senza presunzioni filologiche, semmai accostando a essa i suoni del mio tempo per sentirla ancora più mia.
– Un tuffo nel passato?
– Direi un salto nel passato-futuro. E poi questo mi permetteva di fare un collegamento diretto a Michel de Montaigne, la cosa che m’interessava di più. Come molti sapranno, Montaigne visse gli ultimi venti o trent’anni della sua vita scrivendo un libro in cui sovvertiva le regole della ricerca filosofica. In questo libro la filosofia è stata trasformata in una pratica esistenziale. La metodologia è quella del vivere e lo stupore che nasce dal confuso accostamento degli argomenti che Montaigne fa nei suoi Saggi rende la sua scrittura così speciale. La normalità intesa nella pratica rituale domestica può avere la sua forza anche nella pratica artistica ma… adesso sto davvero divagando, il che, parlando di Montaigne, non può che essere una formidabile coincidenza…
– Andiamo nello specifico: come inizia tutto?
– Qualche anno fa avevo preparato l’arrangiamento di un brano di György Kurtág, Ligatura-Message to Frances-Marie, una perla di bellezza. Non potevo resistere, amavo troppo questa musica. Così ne ho fatto un adattamento per un doppio coro di flauti, ho registrato e ho inviato una copia a Kurtág, per gioco naturalmente, senza alcuna aspettativa. Invece dopo qualche mese ho ricevuto una telefonata da Kurtág in persona (pensavo a uno scherzo…) che mi incitava ad andare avanti nel mio lavoro con la sua musica. Così abbiamo iniziato a collaborare e la cosa è andata avanti per qualche anno. Ogni tanto spedivo dei nuovi arrangiamenti e dopo qualche settimana ci sentivamo telefonicamente per commenti e suggerimenti. Ho selezionato circa quaranta brani tratti principalmente dalla raccolta pianistica Jatékók, tutti sono stati elaborati e trascritti puntualmente, poi registrati voce per voce e montati nel mio studio. Un lavoro da pazzi, molto gratificante. Di tutto questo rimane un’esperienza profonda con la musica: solo uno di questi brani è rimasto nel progetto e sopravvive a questa mole immensa di lavoro.
– Anche la musica di Arvo Pärt ha subìto una trasformazione. Quale?
– In occasione del mio primo disco intitolato REPEAT! ho preparato una versione speciale di Pari Intervallo, un brano importante di Pärt perchè rappresentava l’uscita da un tunnel di silenzio durato tre lunghi anni. In quella specifica occasione ho utilizzato un set di 19 bottiglie di varie dimensioni, quattro bicchieri di cristallo trafugati dal servizio ricevuto in regalo al mio matrimonio e alcuni flauti. In questo mio lavoro di ricerca Arvo è stato veramente generoso: mi ha aiutato in maniera determinante a scavare e a trovare i suoni giusti per rendere giustizia a questo suo piccolo capolavoro.
– Dimmi qualcosa riguardo ai lavori originali presenti in questo progetto.
– Non ho mai conosciuto Mary Jane Leach personalmente, abbiamo sempre comunicato tramite email, però conosco molto bene la sua musica che ha un profondo attaccamento al passato. Mary Jane è una compositrice di avanguardia ma la sua esperienza nella musica antica è stata determinante a cogliere in questo lavoro il cuore e l’emozione della “sua” estetica attraverso quella di Dowland. In realtà questa composizione è una forma di meta-composizione che potrebbe suonare come Dowland ma che è integralmente di Mary Jane Leach. Vorrei aggiungere che questo pezzo, nonostante lo abbia suonato molte volte, possiede una magia: quella di emozionarmi ogni volta come se fosse la prima. I tre lavori di Giuliano D’Angiolini non sono stati concepiti specificamente per quest’occasione; trovo comunque nella sua musica elementi di contatto interessanti con la polifonia tardo-rinascimentale, per questo ho voluto che facessero parte di questo progetto, anche se in un secondo momento. Mi colpisce la coerenza di questo musicista, la sua abilità nel vedere lontano guardando indietro e la sua naturalezza nel trovare soluzioni apparentemente semplici a problemi formali complessi. I calcoli numerici che sorreggono la struttura di questi brani sono sorprendentemente complicati in relazione alla scorrevolezza della musica stessa. Poi c’è una vena malinconica che rende i suoi pezzi simili a una cantilena, a una ninna-nanna vagamente ubriaca. Lo dico con ammirazione ovviamente, anche se si tratta di un paradosso interessante….
– Come si inserisce la musica di Peter Eötvös in questo contesto?
– Difficile dire quanta importanza ha rivestito la musica di Eötvös nella mia formazione. Questo signore ha fatto la storia, prima come collaboratore instancabile di Karlheinz Stockhausen nelle sue sperimentazioni più radicali, poi come direttore d’orchestra tra i più acclamati al mondo e contemporaneamente come compositore di successo. La sua musica conserva la storia e la tradizione mittel-europea con quella vena di tristezza che ha sempre caratterizzato questa cultura. Derwishtanz è stato scritto originalmente per tre clarinetti; in questo disco ho curato una versione per 4 flauti con alcuni piccoli accorgimenti concordati e autorizzati dall’autore.
– Come motivare la presenza di due outsiders come Jacob TV ed Eve Beglarian?
– Dal mio personale punto di vista non ci sono barriere tra i generi. Jacob TV è uno sperimentatore e ha fatto dell’interazione col video un suo elemento caratterizzante. Il video non è inteso come orpello decorativo bensì come base strutturale e generativa della musica stessa. La storia tragica di Helen Keller, sordomuta e non vedente, appare in questo pezzo come un esempio per tutti di volontà e abnegazione. Certamente anche Eve Beglarian ha una visione della musica molto libera ed anti-convenzionale. Eve ha radici armene ma è americana e vive a New York, dove si avvale di materiali, linguaggi e suoni babelici che ha la fortuna di incontrare giornalmente Questo lavoro è pervaso da una tristezza dolce, quasi intima. Una tristezza con cui convivere, non necessariamente negativa, emotivamente sensibile.
– Ho l’impressione che in questo disco tu abbia espresso una concezione mistica del dolore. Non è così?
– Difficile rispondere. Il nostro misticismo è culturalmente venato di sofferenza. Questo è evidente in una concezione spirituale e religiosa del dolore, ovviamente legata alla tradizione della Passione di Cristo, ma ritrovo lo stesso effetto anche in una concezione laica come la mia. Le parole a volte creano delle interferenze interessanti, come ad esempio quella che unisce misticismo a mistero e mistificazione. Il mistero del dolore è forse legato al mistero della conoscenza. La mistificazione della realtà è una delle prove dell’impotenza della nostra condizione, un alibi necessario alla nostra umana sopravvivenza.
– Quale motivo ti ha spinto a elaborare dei video per il concerto?
– Il video è un mezzo straordinariamente efficace per acuire le sensazioni e le emozioni. Oggi l’industria discografica non potrebbe concepire la promozione di un nuovo disco senza l’ausilio di un videoclip. Per quale motivo non dovremmo avvalerci anche noi dello stesso mezzo? In realtà non avevo voglia di decorare ma di raccontare, stabilendo un collegamento tra i suoni che sono spesso presenti nelle Lachrimae e le immagini dei protagonisti che appaiono nei video. Protagonisti del mondo contemporaneo che si ritrovano nudi e spogliati del loro potere di fronte a situazioni epocali. Io non sono un video-maker, però avevo voglia di assumermi la responsabilità di quest’operazione, senza delegare un professionista che avrebbe fatto tecnicamente molto meglio di me. Volevo semplicemente espandere la mia sensibilità nella musica che interpreto, toccare delle corde che non avevo mai suonato prima. E’ stato un modo di approfondire il livello di compenetrazione con la musica o forse il desiderio di non delegare ad altri per farne un diario intimo, un regalo a me stesso.
M.Z. Roma, 10 Gennaio 2013
Ente Musicale Società Aquilana dei Concerti "BONAVENTURA BARATTELLI"
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