La sera del 5 maggio 1972, nel corso di gravi disordini scoppiati nel centro cittadino di Pisa in occasione del preannunciato comizio di chiusura della campagna elettore del Movimento Sociale Italiano (il partito d’ispirazione fascista fondato all’indomani
della II guerra mondiale), la polizia arrestò varie persone, in genere accusate di resistenza e insulti alle forze dell’ordine. Tra di loro un ragazzo di quasi ventuno anni, Franco Serantini, che, in seguito alle violente percosse subite durante e dopo l’arresto, sarebbe morto la mattina di due giorni dopo, abbandonato senza cure e tra atroci dolori (una storia tristemente nota, che avrebbe continuato a ripetersi fino ai giorni nostri). Erano, quelli dei primi Settanta, anni molto duri, che sarebbero durati a
lungo anche in seguito, i cosiddetti “anni di piombo”, per la frequenza con cui le pallottole, quando non le bombe, ne segnavano le giornate. Poco tempo prima, nel dicembre ’69, appunto le bombe alla Banca dell’Agricoltura a Milano avevano dato il via a quella che più tardi si sarebbe chiamata la strategia della tensione, mista di intrighi, episodi di terrorismo, provocazioni e molte vittime. Se tra i loro nomi quello di Serantini è restato di più nella memoria, lo si deve anche al libro che gli dedicò nel 1975 Corrado Stajano. Leggendo questo testo a Francesco Filidei è venuta l’idea di dedicare “N.N.”, il pezzo che ascoltiamo stasera, alla vittima di quegli scontri. Sono vite, le loro, distanti nel tempo e diverse, ma con alcuni punti di contatto che non hanno mancato di “risuonare” nell’animo del compositore.
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Serantini era nato a Cagliari nel 1951, un bambino abbandonato in un ospedale da una madre che non poteva tenerlo. A due anni viene affidato a una coppia di siciliani, ma la nuova mamma muore molto presto, Franco ha solo quattro anni e rimane con i “nonni” materni; alla loro morte tornerà a Cagliari, la sua città natale, affidato all’Istituto “Buon Pastore”, ma quando cresce, per le difficoltà del suo carattere (del resto più che motivate dalla sua storia), viene trasferito a Pisa, al locale Riformatorio, lui che in realtà non ha mai commesso niente di disonesto. Siamo però arrivati al 1968 e la spinta verso un cambiamento radicale della società si sta allargando, dagli studenti di Parigi a tutta l’Europa, e trova un particolare favore a Pisa, una città di tradizioni libertarie sede di un’Università importante. Gli anni pisani sono importanti per Serantini e sono anche i pochi nei quali la sua esistenza è ricordata da vari testimoni. Il suo entusiasmo, la volontà di apprendere, l’amicizia con alcuni docenti che gli aprono mondi nuovi, la passione politica indirizzata verso gli anarchici, con i quali, lui così spesso “ristretto”, si trova solidale, sono i segni di una vita adulta
improvvisamente e tragicamente spezzata in quel maggio del ’72.
Alcuni punti, in questa biografia forzatamente breve, hanno dunque colpito Francesco Filidei. Intanto il cognome: “Fili Dei”, figli di Dio, è uno dei tanti cognomi che in passato venivano dati ai trovatelli, bambini abbandonati, quale è stato Serantini.
Poi Pisa, la città più importante nella vita del giovane anarchico che vi trovò anche la sua precoce fine. Filidei è nato là nel 1973, due anni prima di quegli eventi. Si è poi diplomato a Firenze in organo (all’attività di compositore alterna spesso concerti) per poi passare a Parigi dove si è specializzato al Conservatoire in composizione. I suoi maestri sono stati, tra gli altri, Salvatore Sciarrino e Jean Guillou e in Francia, dove ha lavorato a lungo all’Ircam, ha trovato il suo paese di elezione.
In questo periodo infatti è a Roma, a Villa Medici, vincitore di quel Prix de Rome, che già in passato ha consentito a tanti artisti di soggiornare un anno nella città. Anzi, in questo suo periodo a Trinità dei Monti, Filidei si sta anche divertendo e interessando a riscoprire le tracce dei suoi predecessori musicisti e non è detto che non ne venga fuori qualche sorpresa.
Veniamo ora a “N.N.” (Nescio Nomen, non so il nome, che è la formula per indicare un figlio di padre ignoto, abbandonato appunto), il pezzo che Filidei ha composto, ispirato alla vicenda narrata da Stajano ma su un libretto di Stefano Busellato.
Il testo mescola più lingue, l’italiano, il sardo, il latino e il più delle volte alla resa del significato delle parole viene preferito il loro aspetto immediatamente sonoro, dunque musicale, che si esplicita in fioriture madrigalistiche. L’organico della composizione
è affidato a due distinti gruppi, i percussionisti e le voci, che spesso però si riuniscono a produrre gli stessi materiali (i cantanti percuotendo tavole o parti del loro corpo, i percussionisti emettendo suoni intonati o “soffiati”).
Sette sono le parti che formano il lavoro. La prima, “Manifestazione” evoca l’inizio di quella giornata, i suoni della folla – parole (comprensibili volutamente solo a tratti) attribuite a Serantini, o tratte dal libro di Stajano, o ancora prese dagli articoli apparsi su “Lotta continua” in quei giorni – si mescolano al rumore della folla, alle sirene, al grido. La seconda, “Canto primo – Dormo” è una delicata ninna nanna, centrata sul suono delle campane, degli archetti che sfregano gli xilofoni.
Tutti i testimoni (ma non il medico del carcere che colpevolmente non se ne curò) concordano nel sostenere che Serantini dopo l’arresto fu come in uno stato di costante dormiveglia, un’ansia di potersi immergere nel sonno: non una fuga dalla realtà, ma il segno di un grave danno cerebrale. Il titolo del terzo movimento, “Intermezzo primo/Autopsia – Tuttomondo”, è ispirato a quello del grande murale realizzato da Keith Haring a Pisa nel 1989. Tutti, cantanti e percussionisti, indossano le mascherine, mentre percuotono le tavole, fanno schioccare le dita. La quarta scena (una dimensione visiva non è affatto estranea allo spirito del lavoro) è intitolata “Carcere” ed è non a caso al centro del lavoro, mentre l’Intermezzo prima descritto ha delle rispondenze con il “Funerale” finale. I tredici interpreti alludono direttamente all’Ultima Cena, il tema del sangue percorre il testo, echeggia il latino di “Tenebrae factae sunt”, alla percussione di piatti e posate, al soffiare nelle bottiglie si alterna il silenzio cupo delle celle. Il secondo intermezzo “S’Angioni” è sul testo sardo dell’Agnus Dei, il canto si mescola ai suoni della natura, degli uccelli, le voci maschili formano accordi come “tenores” spezzati, nel progredire della polifonia sono anche gli stessi cantori a moltiplicarsi su una serie di schermi. Il penultimo episodio, “Canto secondo – Drommi”, (anche qui è un parallelismo con il secondo episodio, mentre il “Carcere”, come si è detto, è al centro della struttura complessiva) ritorna il tema della ninna nanna (“Drommi anninnia”), su sequenze di movimenti degli interpreti, tutti con indosso occhiali scuri, che conduce direttamente al finale “Funerali”: il silenzio, le grida ricordano la grande partecipazione popolare all’ultimo atto di una vita troppo breve.
Renato Bossa
(per gentile concessione della Fondazione Musica per Roma)
Ente Musicale Società Aquilana dei Concerti "BONAVENTURA BARATTELLI"
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